Carnevale! Reazionario, ma potenzialmente rivoluzionario...
Sono d’accordo con coloro che nei
commenti al mio post precedente sulle origini del Carnevale hanno obiettato che
la festa in sé è discutibile/rigettabile perché determinata dalle istituzioni
di una società come ‘valvola di sfogo collettiva’ che sostanzialmente mira a
confermare uno status quo attraverso
un’inversione controllata dei ruoli in un periodo ben delimitato. Ma come
antropologa vi propongo un’altra possibile prospettiva – che per noi funziona
in questo caso come in diversi contesti extra-quotidiani (siano questi rituali,
festivi, artistici, ludici in cui ci dedichiamo ai nostri interessi al di fuori
del momento del lavoro) – che potrebbe portare a interpretare una situazione
apparentemente unicamente ‘reazionaria’ come invero contenente in sé stimoli
(seppur vaghi, da far maturare, da rendere azione) per il cambiamento della
società intera.
Nei contesti che ho menzionato,
infatti, ciò che accade è innanzitutto che le situazioni abituali di tempo e
spazio lavorativi subiscono un’interruzione rispetto al fluire abituale, e una
comunità partecipa a un momento ‘altro’ della società in cui avvengono
inversioni dei modelli, dei ruoli, delle situazioni presenti nella vita
quotidiana. In tal modo, le persone si travestono e assumono la maschera di
personaggi reali o fittizi, il povero diventa ricco e può esercitare un certo
potere, la parodia delle situazioni reali viene messa in scena e fatta scorrere
davanti agli occhi degli astanti.
Se ci pensate, per arrivare a
questo punto i membri della società hanno già compiuto delle scelte: come mi
vesto e per quale ragione? Cosa voglio dire con il ruolo che intendo assumere?
Che parodia voglio mettere in atto e perché?
Converrete con me che, seppur
formulate dagli individui unicamente per decidere un travestimento, queste non
sono domande di così poco conto: esse implicano già un atto di rielaborazione
(ancorché spesso inconscio) sulla vita quotidiana e/o su quella della società
cui si appartiene!
In sintesi, gli individui hanno
riflettuto su quelli che un antropologo come Victor Turner chiama i ‘sistemi
socioculturali dinamici’ – ovvero i simboli
in cui una comunità si riconosce. Ma non solo: li hanno rielaborati nei loro
pensieri personali, e ne hanno allestito una pubblica sorta di messa in scena
all’interno della comunità di amici, conoscenti e di chiunque venga in contatto
con loro.
Modelli, ruoli, situazioni – qualsiasi cosa abbia a che fare con l’essere
umano è, infatti, simbolica. Il simbolo è l’associazione di un significante
(una forma in cui qualcosa è espresso) e un significato (un contenuto,
racchiuso appunto all’interno di una forma): in questo modo è un atto simbolico
la scelta di mangiare un cibo piuttosto che un altro, è un simbolo la croce per
coloro che credono in una certa religione, è un simbolo anche una qualsiasi parola
che noi usiamo ogni giorno.
Indipendentemente poi dalla
carica affettiva della quale sono investiti (pensate a una bandiera, a un testo
sacro, o a un oggetto che vi ricorda il/la vostro/a amato/a ecc.) i simboli contemporaneamente rappresentano elementi della società e delle
persone che ne fanno parte, quanto modalità espressive/visibili in cui una
società si manifesta.
Infine – e qui torniamo al
discorso sul Carnevale e in generale sui tempi e le attività
rituali/festive/artistiche/ludiche – i simboli
non sono immutabili: essi cambiano nel tempo tanto a livello di forma,
quanto a livello di contenuto, di qui la loro concezione in termini dinamici.
Pensate, ad esempio, a una parola che tanto ci è familiare, il termine ‘cultura’:
sino alla fine dell’’800 essa si riferiva esclusivamente al risultato dell’educazione
formale cui erano soggetti i figli delle classi abbienti, ma con l’inizio del
suo uso per riferirsi alle competenze che un individuo (qualsiasi individuo)
apprende sin da bambino nel contesto della propria comunità e che gli
permettono di sopravvivere, il termine va ad ampliare il proprio significato,
estendendosi al di là dell’educazione formale che designava originariamente,
per giungere al modo in cui di volta in volta lo usiamo noi oggi a seconda del nostro
discorso.
Se quindi è vero che situazioni
come quelle del Carnevale sono sottoposte a controllo, istituzionalizzate,
usate come periodiche ‘valvole di sfogo sociale’, ciò che avviene è anche che in esse i partecipanti riflettono, mettono
in scena, e condividono con gli altri individui la ridiscussione del simbolico,
rendendolo, nella migliore delle ipotesi, “una sala degli specchi in cui i
problemi, le questioni e le crisi sociali vengono riflessi sotto forma di
immagini molteplici, trasformati, valutati”.
Le persone che partecipano della
società nella vita quotidiana, così come quelle che vivono questi momenti, sono
però sempre le stesse e dentro di loro tutto questo processo avviene senza che lo
si possa bloccare in ‘compartimenti stagni’ di cui perdere la memoria una volta
che il momento festivo è trascorso.
Capite allora perché – nonostante
le premesse reazionarie – una festa come il Carnevale, in cui massima è l’inversione
e la ridiscussione (oltretutto partecipata) delle componenti di una società, è
comunque in parte, anche solo per sfumature, anche solo nella sua piccola
potenzialità di promuovere la riflessività nelle persone, foriera di ipotesi di
cambiamento, di ridiscussione dei simboli e dei valori, e si configura pertanto
come potenzialmente sovversiva?
Le citazioni di Victor Turner le
ho prese dal suo testo Dal rito al teatro,
1986. Mi rendo conto che per me tutto questo discorso è chiaro, ma potrebbe non
esserlo per voi. Vi prego, mi piacciono le conversazioni: se non mi sono
spiegata bene fatemelo sapere, così come se volete commentare e anche confutare quanto
scritto sentitevi liberi e benvenuti nel farlo :-)
Commenti
Ma dato che poi me la faresti sicuramente pagare, lo prendo come un complimento e mi limito a ringraziarti...
:)))))))
Vado a nanna, sono stremato.