L'urlo

Questo pezzo l'ho scritto in questi giorni pensando a una persona in particolare, della quale non mi sono riuscita a prendere cura come m'aveva chiesto, a suo modo, e come avrei voluto fare. Nello stesso tempo, però, è per tutti coloro che a un certo punto della propria vita hanno deciso di tirare i remi in barca e di non credere più in ciò che potevano essere le premesse della più assurda felicità - cose quali la sincerità, l'autenticità, se stessi, il proprio valore, i propri sogni e desideri e tante altre che elencarle tutte mi è impossibile. E' il mio urlo di impotenza nel non riuscire a convincervi che non c'è nulla di cui avere paura, e che - qualsiasi cosa accada - andrà comunque tutto bene. Abbiate pazienza, ho bisogno di buttarlo fuori.


Non potevo stare a guardare mentre smarrito e terrorizzato mi annunciavi la tua definitiva rinuncia a te stesso e alla vita.
Parlavi in modo sterile e impostato - come se ti stessi riferendo a qualcun altro e non a te.
Tutto il tuo sforzo era concentrato nel riuscire a convincermi della sensatezza di questa tua scelta, ed enumeravi una lista di punti che pur sapevi non mi avrebbero mai convinta.

Intanto cercavi la mia mano, delicatamente come al solito, con paura e timidezza, e non riuscivi a guardarmi negli occhi. I tuoi occhi ormai acquosi guardavano in basso, e non s'alzavano dal fissare il marciapiede.
E deglutivi - deglutivi in continuazione - quasi che il pronunciare parole così ben scandite fuori dalla tua bocca fosse lo spettacolo messo in scena per me mentre, dietro le quinte, trangugiavi saliva per sedare la nausea, il vomito e gli spasmi di dolore allo stomaco che accompagnavano quella decisione.

Ti ho insultato,
ti ho esortato,
ti ho incoraggiato,
ti ho umiliato,
ti ho picchiato,
ti ho urlato contro,
e poi ti ho parlato ancora, con calma e forza - tenendo la tua mano tra le mie.

Ti ho ricordato la facilità con cui avevi avuto accesso all'armonia e all'interezza - era bastata solo la presa della mia mano a tenerti mentre camminavi su quel filo sospeso.
Non eri caduto - e per un attimo avevi sperimentato il perfetto equilibrio, la grazia del movimento, e la vittoria sulla paura del vuoto.
Quanto eri stato felice! Quanto eri stato bello! E anche tu te n'eri stupito ed eri diventato euforico, tanta l'adrenalina della perfezione, della bellezza e della felicità ti girava in corpo.
E ti eri stupito di come fosse stato così semplice, così naturale - come se l'avessi fatto da sempre.

Ma in quello stesso istante pensasti pure che doveva essersi trattato d'un evento fortuito. E ti prese lo sgomento al pensiero che un giorno avresti potuto essere un equilibrista sulla corda senza più nessuno che ti tenesse per mano, e senza più una rete di sicurezza.
Trasformasti il flusso di piacere che ti girava in corpo in schizofrenia, e cominciasti a fare di tutto per confermare l'impossibilità che quella perfetta armonia - in te, indipendentemente dall'eventuale rapporto con un'altra persona - accadesse ancora (già: è la classica profezia che si autoadempie).

Io non ci sarei stata, o forse sì - non lo sapremo mai.
Ma ho fatto tutto ciò ch'era in mio potere per non vedere i tuoi occhi e la tua anima spegnersi per sempre. Ho urlato - ho urlato con tutto il fiato che avevo in gola.
E quando non ho avuto più fiato la mia gola, l'esofago, lo stomaco si sono infiammati, e dalla bocca ha cominciato a uscire sangue. E ancora - afona - ho cercato di gridare. Ma non usciva più suono - solo fiotti di sangue.

Intanto tu, ormai, t'eri di nuovo disattivato, spento - eri tornato in un ambiente senza luce, né suoni, né colori, né dolore, né piacere, senza sogni, senza rischi, senza sensazioni.
Non udivi più le mie urla, né vedevi il mio pianto senza sosta, né sentivi più l'odore del sangue.
E io ancora urlo, smarrita e svuotata, perché non sono stata abbastanza brava da proteggerti, da farti sentire al sicuro.

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