Nomadismo, displacement e identità
Non è la prima volta che per studio o
lavoro mi trasferisco – in particolare all'estero – per un certo
tempo. Già in passato sono stata via mesi affittando casa e facendo
nuove conoscenze, dovendo parlare in un'altra lingua e mangiare cibi
che non erano quelli cui ero abituata.
In ogni luogo osservo persone e
comportamenti – cerco di intuire l'anima del posto, l'atmosfera
locale, il ritmo di vita della gente. Se non fossi così curiosa –
e non amassi tanto espormi all'alterità – non avrei scelto come
senso della mia vita quello che è il lavoro più bello del mondo.
Immancabilmente, però, capita che
arrivi il momento in cui non so più chi io sia né dove mi trovi.
Uno spaesamento in termini di sensazione d'essere 'fuori luogo' –
una condizione in cui non sei più la persona che sta viaggiando, ma
neanche colei che appartiene realmente e pienamente al posto nuovo.
Uno sgradevole limbo determinato dalla
negazione d'una precisa collocazione fisica, emotiva ed esperienziale
di sé.
Chi esperisce questa condizione sa bene
cosa significhi avere contemporanea consapevolezza di sé come 1)
persona reale, concreta, in carne e ossa, che sta vivendo altrove
rispetto al paese d'origine e come 2) altro sé (una sorta di ombra o
di ologramma di sé), identico a noi, che nella nostra immaginazione
vivrebbe ancora nel paese d'origine e farebbe ogni giorno quelle cose
che facevamo quando eravamo lì.
Dissociati – tali ci si sente. Privi
di – e staccati da – la propria ombra, come se una forbice fosse
intervenuta dall'alto a tagliare in due la tua persona.
E questa sensazione è la cosa che più
m'inquieta, ogni volta.
Il giovane che comincia la propria vita
viaggiando all'estero non ancora ventenne e non radicandosi in alcun
luogo forma nel nomadismo il proprio essere, la propria visione del
mondo, le proprie categorie interpretative di questo. La sua identità
è una sorta di 'patchwork', nella quale confluiscono suggestioni che
originano da contesti culturali diversi e che spesso sorprende gli
stanziali per la libertà, l'elasticità, la versatilità delle
connessioni dalle quali è costituita.
Eppure non è tutto rose e fiori:
spesso, le stesse persone, abituate come sono a 'guardare dall'alto',
ovvero a volo d'uccello e di qui comparativamente, perdono elementi
essenziali delle situazioni locali specifiche – anche solo perché
non vi risiedono per periodi abbastanza lunghi da poterle comprendere
profondamente.
Per chi invece è più avanti negli
anni, il viaggio e il nomadismo presentano ancora quegli elementi
d'attrattiva, passione e piacere che si provavano in passato, ma si
innestano su una persona ormai 'strutturata' come tale. Le categorie
interpretative sono già formate su una base più unitaria già in
partenza (ovvero più radicata nel contesto culturale esperito per
più anni e quindi con una minore sintesi di elementi distanti nello
spazio) e – a meno che si non abbia un'illuminazione sulla via di
Damasco, cosa che può sempre avvenire – queste cambieranno
lentamente e per sfumature sulla base delle nuove esperienze.
Per quanto quindi ami il cambiare cibo
e atmosfera ogni giorno, il viaggiare leggera, il non comprendere mai
pienamente l'ambiente sonoro che mi circonda e l'espormi a persone e
percezioni sensoriali stranianti, sono ben consapevole che tutto ciò
è una scelta che sta nella volontà di vivere la dimensione della
folle ebbrezza e del farmi investire dai fenomeni pur con la
sicurezza che sarà una corsa di durata breve in ogni luogo,
supportata parimenti da un limite temporale ben chiaro e già deciso.
Una sorta di furbesco 'nomadismo a
termine' – il mio – lo ammetto.
Diverso è il caso, invece, del
muoversi per un progetto specifico in un luogo straniero senza
possibilità di fuga, con un lavoro specifico da realizzare,
costretti a stare fermi in un singolo posto: diventare stanziali in
un altrove. Qui quel 'displacement' di cui parlavo prende
drammaticamente forma, e a me personalmente inquieta assai.
Dev'essere per questo che, quando lo
vivo, porto con me elementi simbolici di me stessa, del mio passato,
della mia memoria, e me li dispongo visivamente davanti in modo tale
da non perdere queste sorte di 'punti di riferimento' (un po' come ai
malati di Alzheimer si mettono orologi in ogni parte della casa).
Appendo alle pareti flyer di concerti
cui ho partecipato, locandine cinematografiche di film che ho visto,
manifesti di eventi e iniziative in cui ho lavorato – la mia
memoria deve stare lì, sempre davanti ai miei occhi, in modo tale
che lo sguardo, vagando, non mi restituisca mai la sensazione di
vuoto esperienziale, la sensazione di non aver avuto un passato, la
mancanza di una personale memoria (“conserva le prove che sei
esistito”). Mi terrorizza l'idea che la mia ombra si stacchi da me
– ed è come se sentissi la necessità di una tana che custodisca
l'interezza della mia persona.
Ma se questo s'è espresso sinora
esclusivamente a livello visivo, di recente mi sono resa conto che
tutti i campi della memoria sensoriale vogliono trovare posto accanto
a quelli nuovi dei quali faccio esperienza. E, visto che ormai so
come il giochetto funziona, parimenti non temo più la loro
condivisione con i miei nuovi conoscenti – impegnati anch'essi
nella propria ricerca di equilibrio tra identità pregressa e
accoglienza di nuove suggestioni.
Di qui il rendersi reciprocamente
edotti sulla musica che ti dà la sensazione di 'casa', così come
sulla propria lingua (entrambe afferenti all'ambiente sonoro in cui
siamo cresciuti), o – capitolo altrettanto prezioso – sul cibo e
sulle tecniche della sua preparazione, così come il disquisire, a un
livello più alto, dei punti di riferimento in base ai quali si
orientano la propria esistenza e le proprie scelte.
Io so che devo fare attenzione – nel
mio amore per la vita e nella mia curiosità verso nuove esperienze –
a non farmi risucchiare da spirali sconosciute in cui mi inoltro
fiduciosa e ingenua facendomene assorbire e metabolizzare.
Per questo ci tengo tanto a mettere in
scena per me gli elementi della mia persona.
E voi, amici miei, che in così tanti
risiedete all'estero o l'avete fatto in passato – provate un
sentire analogo al mio?
E se sì, come vi reagite? Costruite
anche voi una sorta di tana/rifugio per la vostra identità come
faccio io? Che cosa ci mettete dentro?
Commenti
Devo dire che sento molto la mancanza di "radici", ma proprio per questo credo di avere un certo senso del passato e della storia (familiare e culturale), di cui forse, inconsciamente, il mio nick name è testimonianza! ;)
Il discorso è molto amio. Diciamo che avendo iniziato a "dislocarmi" in paesi stranieri da abbastanza giovane, non posso che consigliare questo alle giovani generazioni. Viaggiare, cambia la propria visione del mondo e cambia anche le proprie prospettive. Questa estraneità di cui parli tu, di contro, non l'ho mai provata (altri sensi di disagio si eh!).
Ma ci sarebbe da fare un seminario su questo argomento!
Piuttosto, pensavo recentemente che dovrei tanto tenere un diario dove registrare gli stati d'animo di un periodo, perché tendo a distorcerli incredibilmente nella memoria. Quello sì, vorrei fermare pezzi della mia identità su carta (o disco fisso) per non coltivare idee sbagliate su me stesso.
piesse
quale e` il piu`bel lavoro del mondo?
Come fai a viaggiare molto sul posto? In che consiste tal viaggio?
@Nishanga: capisco, provo la medesima cosa quando girovago a lungo dormendo ogni notte in un letto (o su un divano) diverso ;-)
Il più bel lavoro del mondo è fare l'antropologa!