Il tempo delle nostre vite, la libertà e la pirateria

 

Nell'onesto servizio vi sono normalmente paghe basse e duro lavoro; in questo, abbondanza e sazietà, piaceri e agi, libertà e potere. Chi non la riterrebbe la partita vincente, quando tutto il rischio che si corre è, nel peggiore dei casi, di morire strangolati con un paio di smorfie? No, un'esistenza breve ma felice, ecco il mio motto. (Bartholomew Roberts)


Orbene, la prossima settimana parto. Non posso dire che vado in vacanza, perché le vacanze le fanno coloro che hanno un lavoro regolare e interrompono il flusso di questo - e di una vita quotidiana ben cadenzata - per poche settimane l'anno.
Io invece vivo nel più totale disordine a livello temporale, lavorando in qualsiasi momento e prendendo tempo per me in qualsiasi altro, così come il mio 'lavoro' coincide con ciò che dà senso alla mia vita e quindi è qualcosa che miro a fare continuamente - che venga retribuito o meno.

Per tale ragione, nella mia lunga 'vacanza' estiva in realtà lavorerò altrove (sempre come antropologa/attivista culturale) e per quello verrò mantenuta con vitto/alloggio/rimborso - che per una che sta volentieri nel baratto va benissimo.
Si può vivere così? Sì: ci si ammazza dalla fatica, dalla stanchezza, dalla tensione di non farcela mai (e la situazione con questo governo sta peggiornando alla velocità della luce), si sta comunque sul limite della sopravvivenza economica, si sballa completamente il funzionamento e un ritmo regolare per il proprio corpo - ma dipende da ciò che si vuole dalla vita, e in ogni caso altre scelte non sarebbero state migliori, alla luce del momento attuale.

Io così appassionata di storia della pirateria, infatti, mi rendo conto che al momento siamo esattamente nella medesima condizione di alternative che si poneva all'uomo inglese di inizio XVIII secolo: da una parte l'arruolamento forzato nella marina inglese (ti avessero malauguratamente sorpreso in giro) con sì la certezza di paghe (da fame), ma anche ordini cui ubbidire, vessazioni d'ogni tipo, malattie e rischio continuo di morte durante traversate, negli scontri coi pirati o anche a discrezione del capitano - il tutto per difendere i mercantili di ricchi possidenti terrieri e commercianti (anche di schiavi), dall'altra l'unirsi ai pirati e vivere i medesimi rischi dei marinai inglesi d'una esistenza breve e pericolosa, ma da uomini liberi, da compagni sulle navi che dividevano in parti uguali il bottino, da partecipanti ad assemblee che deliberavano in modo collegiale e prendendo ordini da capitani eletti, per poi fare grandi bisbocce una volta sulla terraferma.

Si può anelare alla felicità - allo scegliere per se stessi di volta in volta ciò che ti fa star bene, cambiando anche idea nel corso del tempo - solo se si è liberi, e si può essere liberi solo se non si ha alcun tipo di legame ("non importa il tipo di fune o chi ha stretto il nodo. E' la corda stessa il male. E' con quella che prima o poi si finisce per legarsi da soli o per essere appesi a una forca", dice Long John Silver) e si deve badare solo a garantire la propria, di sopravvivenza.
Altrimenti si diventa ricattabili, e di lì tutte le perversioni e il dominio della persona sulla persona di cui si può essere oggetto. Prigioni. Solo prigioni. Nell'attesa della morte.


Commenti

gattonero ha detto…
Si nasce legati a una corda, anzi a un cordone. Lo si deve tagliare e annodare, lasciando a perenne ricordo una (deliziosa) cicatrice, poi divenuta il simbolo del centro del mondo.
Quel taglio e quel nodo sono gli unici atti della vita che danno veramente la libertà. Da lì in poi la vera libertà è un sogno, un desiderio impossibile da realizzare.
La vera libertà non fa parte del patrimonio genetico umano; sbandierata, predicata, agognata, sovente innaffiata col sangue credendo di rinvigorirla. Resta un'illusione.
Tagliato quel cordone, nella vita si trovano tanti di quei lacciuoli che ci legano sempre a qualcosa: a un palo maestro per non rispondere al canto delle sirene, all'etica, alle convenzioni, alla morale...
Tutti lacci che possono diventare corda con nodo scorsoio, cravatte che inconsciamente si indossano per tutta la vita, e che quando la botte sotto i piedi ruzzola via, si resta impiccati.
Ed è allora che una bottiglia di rum aiuta a capire che quel cordone tagliato alla nascita, nella realtà viene recuperato e indossato fino alla stretta finale.
"Quindici uomini sulla cassa del morto e una bottiglia di rum a conforto...": di chi ci sta sopra, e chi ci sta dentro finalmente è libero.
Ciao torna presto e non ti sciupare troppo.
Minerva ha detto…
Mio caro, bellissimo commento (sono incantata come sempre dalla tua grazia nell'esporre le tue riflessioni), che ovviamente rispetto pur se non lo condivido. Per me libertà e felicità si possono raggiungere - pur se a un prezzo altissimo, non lo nego. Difficile è non solo la sopravvivenza quanto anche proprio il cercare continuamente nuove situazioni e nuove soluzioni precarie d'equilibrio (= felicità) in queste, ché invece l'instaurare un legame con qualcosa di statico (un rapporto, un lavoro, un luogo) è di fatto, secondo me, la premessa che porta all'infelicità e alla morte prima del tempo...
Cri ha detto…
Io sono in viaggio alla ricerca della mia libertà. Credo che, raggiunta la prima, si scopra naturalmente assieme a quella la seconda.
La ventura al raggiungimento della libertà - libertà che è in-dipendenza e pienezza del proprio essere - è un viaggio definitivo. Nel suo giungere in mete sempre in movimento, in terre che mancano sotto i piedi in continuazione, è un viaggio che, più che costare carissimo, costa tutto. Perché vale tutto.
Perché la vita è il viaggio, un viaggio per mare dove la scelta da compiere è davvero tutta lì, semplice, antitetica e determinante: se farlo su una galera, o su una nave corsara.
Minerva ha detto…
TU SEI A DIR POCO MERAVIGLIOSA, AMICA MIA :-)
Dai, coraggio, continua così che un giorno sboccerai e voglio essere lì a vederne i colori e sentirne il profumo!