Facciamola finita con i rimpianti, ve ne prego
Da The Guardian del 1° febbraio 2012, alcuni estratti da un articolo doloroso quanto istruttivo e sano (per i viventi): mi sembrava importante e urgente condividere con voi tali pensieri che ci vengono dati da persone che non ci sono più.
Buona riflessione.
I cinque principali rimpianti del morente
[...] Bronnie Ware è un'infermiera australiana che ha trascorso
diversi anni in un reparto di cure palliative, occupandosi di pazienti
con appena tre mesi di vita davanti. [...] Ware scrive dell'impressionante chiarezza di visione che
le persone manifestano alla fine della loro vita e di come sia
possibile che anche noi impariamo dalle loro consapevolezze. “Quando
vengono interpellati a proposito dei propri rimpianti o di quello che
avrebbero voluto fare in modo diverso” - dice Ware - “ci sono temi
comuni che ritornano”.
Questi sono i cinque principali, come da lei testimoniato.
1. Avrei voluto avere il coraggio di vivere la vita che volevo, non quella che gli altri si aspettavano che vivessi.
Questo è il più comune rimpianto per tutti. Quando le persone si rendono conto che la loro vita è quasi finita e guardano al passato con maggiore chiarezza, è facile che vedano quanti dei loro sogni non si sono realizzati. Molte persone non hanno onorato neanche la metà dei desideri che avevano e devono morire sapendo che questo è dipeso dalle scelte che hanno fatto o non fatto. [...]
2. Avrei voluto lavorare meno duramente.
Questo rimpianto appartiene soprattutto ai pazienti maschi di cui mi sono presa cura. Qualche donna a volte parla di questo rammarico, ma come spesso capitava nelle generazioni precedenti molte di loro non erano capifamiglia su cui si reggeva l'economia familiare. Tutti gli uomini di cui mi sono presa cura rimpiangevano profondamente di aver speso così tanto tempo delle loro vite lavorando come criceti nella ruota. A causa dell'eccesso di lavoro hanno perso l'infanzia dei figli e goduto poco della compagnia dei partner.
3. Vorrei aver avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti.
Molte persone soffocano quello che sentono per amor di pace, per evitare conflitti. Il risultato è che vivono un'esistenza fatta di mediocrità e non diventano mai quello che avrebbero potuto essere davvero. Tanti di loro sviluppano relazioni malate a causa dell'amarezza e del risentimento che si portano appresso.
4. Vorrei essere rimasto in contatto con i miei amici.
Spesso queste persone non realizzavano veramente il vantaggio di avere un vecchio amico fino a quando non giungevano alle loro ultime settimane di vite e non era più possibile rintracciarne qualcuno. [...]
5. Avrei voluto permettere a me stesso di essere felice.
Questo è un rimpianto sorprendentemente comune. Molte persone non si rendono conto fino alla fine che la felicità è una scelta. Si adagiano dentro a vecchi schemi e abitudini finché il cosiddetto comfort del quotidiano sommerge le loro emozioni e anche le loro vite fisiche. La paura del cambiamento fa sì che spesso finiscano per fingere con se stessi e con gli altri che tutto questo basti, che sia sufficiente; ma nel profondo continuano a desiderare una risata vera e un'ultima sciocchezza da fare ancora nella vita.
Commenti
Buna vita a tutti ;-)
Buona vita a te! :-)
Però quando leggo certi tipi di post mi domando se sia ancora giusto pensare che sia la felicità il fine ultimo della nostra vita, che cercare di escludere il dolore o le delusioni alla ricerca dell'appagamento non sia sbagliato.
Ho potuto constatare con il tempo che oltre allo stra-abusato concetto che il dolore educa a volte serve come benzina per trovare la forza di migliorare, che non sia necessario sono nelle fasi di apprendimento ma come forza propulsiva.
Il vero peccato commesso leggendo quanto scritto è che tale consapevolezza è giunta troppo tardi, ma mi domando, se avessero percepito la sofferenza maggiormente, tempo prima, si sarebbero meno adagiati ed avrebbero cercato con maggior forza quello che desideravano?
Altra considerazione slegata dalla precedente, molti soffrono perché costretti/te a lavorare per garantire la sopravvivenza o una vita ritenuta decente, questo vuole il capitalismo sfrenato, questa è la nostra realtà.
Alla luce dei fatti non è il miglior mondo possibile, oggi con i progressi avuti si potrebbe lavorare meno, eppure ti dico per esperienza che le fabbriche sono piene di persone che lavorano anche nove o dieci ore al giorno, solo per produrre oggetti che sempre meno persone comprano.
E' così assurdo.
Il punto 5 lo trovo fondamentale e la frase "La felicità è una scelta" bisognerebbe scolpirla dentro le nostre teste per sempre.
Istintivamente viene da ribellarsi a questa frase, pensando "See vai a vedere che ho scelto io di essere infelice" ma se siamo più riflessivi e ONESTI ci rendiamo conto di essere il risultato dei nostri pensieri, ergo...la felicità è una scelta.
Ho deciso, sono felice! ;)
Credo come te che il dolore possa essere una forza propulsiva alla reazione (e quindi, magari, alla ricerca della felicità). Il concetto che esso 'educhi' invece forse andrebbe sviluppato (educa a cosa? se alla sensibilità per esempio per il dolore altrui e per il 'vedere in profondità' mi sta bene, ma magari ad altre finalità mi starebbe meno bene) per non rischiare di cadere nell'autosacrificio cattolico.
Sull'avere un'anticipazione del bilancio e dei possibili rimpianti, ritengo anche qui che no, non farebbe male a nessuno prendersi una bella botta profonda che gli/le dia una svegliata in modo tale da non lasciar trascorrere l'esistenza appunto senza pensare a queste questioni e quindi ricentrare la vita su di sé ma in questo miodo sano, intelligente, consapevole. Non tutti reagirebbero forse così (la madre degli idioti è sempre incinta) ma credo che in tanti la smetterebbero di fare straordinari per rovinarsi la salute e spendere poi i soldi in medicine o portarseli nella tomba.
Sull'analisi del sistema capitalista, hai anche qui fatto centro con una sintesi perfetta. Si può cercare però di sottrarsi a questo sistema, intanto riducendo la necessità di consumi e poi riscoprendo altri modi di vivere che siano basati più su baratto e condivisione che sull'acquisto. Liberarsi dalle cose per guadagnare il tempo da dedicare a ciò che ci rende felici.
E poi trovarsi soluzioni 'lavorative' (ma direi più che altro 'soluzioni che garantiscano la sussistenza') quanto più possibile distanti dal sistema. Certo, ci vuole una bella creatività e immaginazione!
Quando poi ci sei dentro, però, non è mica così brutto come te lo prospettano dall'esterno. Ci vuole però un grande atto di coraggio per attuare tali cambiamenti.
Buona giornata! :-)
E intanto vado avanti col progetto falansterio...
Buona giornata anche a te, baci! :-)
Il fatto è che si vive, come usa oggi, "a propria insaputa", spesso pensando che le "cose" capitino solo agli altri, come fossimo solo spettatori del dolore e della morte, ed ancor peggio, spettatori inerti delle nostra esistenza; si sfiora, questa esistenza, sopra il pelo dell'acqua, da soldatini omologati dell'esercito delle vite altrui, rigidi e fermi nei comandi, guai a a scartare di lato, guai a perdersi nella cedevolezza di un meraviglioso ti voglio bene.
Quando consapevolmente la morte mi è stata molto vicina, ricordo che mi piaceva ripetere ai miei "vi voglio bene", un mantra che mi rendeva felice, leggera, quasi compensatorio del dolore che sarebbe venuto dalla mia perdita.
@Mark
Trovo offensive e sprezzanti le tue parole, indelicate nei confronti di chi soffre e prova molto, molto dolore; qui non si tratta di trovare la formula magica della felicità, che ciascuno di noi può ravvisare in ciò che più gli aggrada, fosse anche giocare a briscola: qui si parla di buona o cattiva qualità dell'esistenza e di quante e quali pieghe essa acquista quando la indossiamo, pieghe fatte o meno della coscienza di se stessi.
A me piace vederla come un libro, con fogli bianchi, alla nascita; per un po' di tempo, soggettivo, qualcuno riempie le prime pagine, poi se ne prende possesso completo e la propria vita viene scritta di proprio pugno. Ovviamente da chi ha avuto la possibilità di intendere e volere.
Arrivando alla fine di questo libro, o perlomeno dopo un buon numero di capitoli, viene ogni tanto voglia di rileggerlo, magari iniziando proprio dalle pagine scritte da altri.
Ed è lì che vengono fuori i primi rimpianti, molto prima del capitolo finale: ma sono tutti a livello di "se"... avessi fatto così anziché cosà, avessi fatto un altro lavoro, avessi sposato un'altra donna (o uomo), avessi fatto, avendole avute, altre scelte di vita...
Sono rimpianti senza futuro, quel che è stato fatto è ormai scritto in quel libro e non c'è bianchetto che possa modificarlo.
Quanto alla felicità, come tale e come totale, credo sia un'utopia, non esiste: gocce di felicità, nel corso della vita capitano a tutti; ma sono gocce, talmente rapide a dissolversi, che se non colte al momento svaniscono, e sovente manco vengono riportate nel libro, per cui figurano come mai vissute.
Il lavoro: da un po' di tempo più che la durezza, la pesantezza del lavoro, il rimpianto sarà di non averlo trovato, o trovato a spizzichi e mozzichi, e la voce disoccupato o sottocupato sarà (è) riportata su molte pagine del volume (mi chiedo che rimpianti avranno alcune categorie che senza avere, mai, lavorato, potranno scrivere di essere state talmente imbottite di denaro da fare schifo).
Sul dolore che fortifica: la ritengo una panzana filosofica; nonostante ciò (opinione personale contingente) il dolore, i dolori, danno modo di raccogliere quelle famose gocce di felicità, che sono date da un sorriso inatteso, da una parola che non ci si aspetta di sentire, da una carezza, da un bacio... Attimi, che però vanno a finire nella colonna delle cose positive, da scrivere.
Ecco, alla fine, più che di rimpianti specifici, credo che sia la lettura della propria vita nella sua interezza a provocare rimpianto, per le cose belle godute, e anche per quelle meno belle, o anche brutte: si rimpiange la vita che se va.
Ciao, che il sole accompagni il tuo uichend pasqualizio.
Tenersi tutto dentro è autodistruttivo, ma parlare con sincerità a volte fa male a chi ascolta. E alla fine ti senti sollevato per aver detto ciò che pensi, ma stai male per la reazione che hai scatenato.
Ecco, la mia lista potrebbe essere uguale, ma al punto 3 direi "vorrei aver avuto la delicatezza di NON esprimere i miei sentimenti"